Le notizie che rimbalzano da una testata ad un’altra sulla questione del cimitero dei feti e del fatto che le donne trovino, a loro insaputa, il proprio nome sulla tomba dove sono stati seppelliti i resti dei loro aborti, non è e non deve solo una questione che riguarda la privacy.
La legge 285/90 prevede che i feti superiori alle 20 settimane di gestazione, fino alle 28, e i cui resti non siano richiesti dalla madre, debbano essere inumati in fosse comuni, nel più completo anonimato.
Anche al di sotto delle 20 settimane,poi, se la donna lo richiede, può procedere, autonomamente, alla inumazione altrimenti la Asl procede al trattamento termico.
Ma non solo, la legge 194, prevede che siano perseguiti penalmente coloro i quali rivelino i nomi delle donne che sono ricorse all’aborto.
Possibile che le istituzioni non sappiano tutto questo?
Ovvio che sì.
Ma questo finto pietismo, che fa mettere croci e cippi funebri sulla colpa delle donne che decidono di abortire, apre le porte alle associazioni confessionali, che laddove riescono, stipulano convenzioni con le Asl per avere a disposizione tutti i residui abortivi, di qualsiasi epoca di gestazione, per seppellirli, anche se la madre decide di non procedere alla sepoltura, convinti, che una donna che rinunci alla possibilità di inumare, perda ogni diritto sul destino di quei resti.
Ecco perché il discorso, “bene la sepoltura con la croce e la denominazione di un’area cimiteriale dedicata, ma non il nome della donna per un discorso di privacy” è parziale.
Perché erigere un altare, un cippo funebre, una croce nei cimiteri, ove siano riconoscibili dei residui degli aborti è un altare alla colpa di tutte le donne che hanno ricorso all’IVG, ovunque loro si trovino, abitino, qualsiasi cosa abbiano deciso sul loro corpo.
Bloccare questo tipo di iniziative significa difendere la legge 194/78. Perché i diritti acquisiti delle donne, come ci appare così chiaro in questi giorni, sono sempre sotto attacco.
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